Ciò che fai e ciò che sei sono la stessa cosa?
Io… io sono un judoka, sono un chitarrista, sono un genitore, sono un compagno, sono un figlio, sono un amico, sono un coach, sono un insegnante, sono un mentore, sono un poeta…
Sono una sacco di cose e nessuna di esse mi definisce del tutto.
Neanche tutte queste messe assieme riescono a definirmi del tutto.
Ecco l’inganno…
Io… io faccio il commerciale, faccio il padre, faccio il grafico, faccio il marketing manager, faccio il trainer, faccio il consulente, faccio il critico musicale, faccio la guida, faccio il giornalista…
E tutto questo, che faccio talmente tanto da sembrare ciò che sono, mi definisce ancora meno.
Detto tutto questo mi viene difficile dire cosa io sia e questo, nella mia esperienza di coach, vale per me come gli altri.
Come ce lo raccontiamo
Sento tutti definirsi per il comportamento che hanno, per ciò che fanno:
- sono un amministratore delegato
- sono una persona timida
- sono un padre di famiglia
- sono un estroverso
- sono una persona sorridente
- …
Ma tutto questo non parla davvero di noi, racconta solo ciò che facciamo.
Per capire davvero chi siamo, per entrare nel profondo dei nostri valori, dei nostri desideri, della nostra identità ed essenza bisognerebbe andare un po’ più a fondo.
Tutto questo è quasi impossibile da solo, è difficile non cadere nell’inganno del “raccontarsela”, dell’indorare la pillola o dell’autocommiserazione.
Con un piccolo (grande) aiuto…
Ci vuole qualcuno che ci aiuti a spacchettare le informazioni, qualcuno che faccia le domande scomode, qualcuno che ci spinga oltre e ci guidi verso la “verità”.
Questo è il ruolo di un coach, almeno uno dei suoi ruoli, guidarti da ciò che credi di essere, da ciò che fai, a ciò che sei o potresti essere.
E questa è la parte più entusiasmante di questa professione.
È anche la parte più impegnativa, da tanti punti di vista:
- Il rispetto: rispetto per la diversità e non parlo di ciò che è, o dovrebbe essere, evidente a tutti, ma di quando davanti a noi troviamo qualcuno con valori diversi dai nostri e dobbiamo riuscire a entrare nel suo mondo in punta di piedi senza lasciare impronte.
- L’umiltà: spesso i “giovani” coach maturano una certa presunzione. La voglia di aiutare gli altri, le competenze acquisite e il processo stesso di apprendimento ,che porta a maturare nuove consapevolezze su di se, possono avere questo effetto collaterale. Ma un coach non ha le soluzioni, ti aiuta a trovare le tue specifiche soluzioni, altrimenti sarebbe un consulente.
- L’attenzione: parlo specificatamente della focalizzazione totale sulla persona che hai davanti. Parlo di ascoltare invece che sentire, parlo di guardare invece che vedere. Si tratta di “leggere” tutto quello che ogni persona ci dice senza dirlo.
- La risolutezza: bisogna essere intransigenti e alle volte un po’ rudi per riuscire a far sì che le persone escano dai loro schemi. Quindi bisogna essere risoluti nel farlo e non farsi “tirare in mezzo” dalla storia, dai drammi, dalle convinzioni del nostro interlocutore. Dobbiamo mantenere un empatico distacco per poter aiutare chi si rivolge a noi.
La ricompensa
Tutto questo impegno porta a un’inestimabile ricompensa, per il coach e per chi gli ha chiesto aiuto.
La consapevolezza.
È un valore inestimabile, è il punto di partenza di ogni viaggio e il motore di ogni azione.
Senza consapevolezza, senza “il punto nave” (usando una metafora tanto amata da Paola Velati) non posso tracciare alcuna rotta. Se non so dove sono non potrò mai decidere dove voglio andare e come arrivarci.
Buon viaggio…
Gualtiero Tronconi